Ebrei di Libia

Una comunità antica
Una presenza ebraica nei territori dell’attuale Libia è attestata almeno dal III secolo a.C. Da allora, gli ebrei della regione hanno vissuto sotto diverse dominazioni – romana, bizantina, araba e spagnola – fino all’instaurazione del potere ottomano nel 1551. Con l’arrivo degli ebrei espulsi dalla Spagna nel 1492, tra cui rav Shimon Labi, le comunità locali conobbero un profondo rinnovamento religioso. Tuttavia, furono soprattutto gli ultimi decenni della dominazione ottomana a produrre cambiamenti significativi nella struttura sociale e nella cultura degli ebrei libici. Su tali trasformazioni influirono in prima istanza i tentativi ottomani di modernizzazione dell’impero, nel quadro di una serie di riforme conosciute con il nome di Tanzimat, attraverso cui si cercò di favorire l’integrazione nel sistema imperiale delle diverse componenti culturali e religiose della società. La comunità ebraica fu riorganizzata con la nomina di rappresentanti religiosi presso il potere imperiale, le autorità ottomane istituirono una cittadinanza ugualitaria per tutti gli abitanti dell’Impero ed alcuni ebrei tripolini furono addirittura mobilitati nell’esercito e addestrati militarmente, cosa impensabile fino ad allora nelle società islamiche tradizionali. Se l’ottomanismo e la rivoluzione dei Giovani Turchi ebbero poca presa sugli ebrei libici, dalla fine dell’800 le comunità ebraiche locali conobbero invece una sempre maggiore esposizione alle culture europee, in particolar modo quella italiana e in parte minore quella francese. In quegli anni infatti venne aperta, su iniziativa di ebrei locali, una prima scuola italiana a Tripoli e fu istituita una scuola dell’Alliance israélite universelle. Gli ultimi decenni della dominazione ottomana videro così svilupparsi relazioni sempre più strette tra l’élite ebraica locale e l’Italia, nel contesto della crescente penetrazione culturale ed economica italiana nella regione.
Il periodo coloniale italiano
L’occupazione militare delle province ottomane di Tripoli e Bengasi da parte dell’Italia nel 1911 segnò un punto di svolta. La colonizzazione lasciò segni indelebili sulla comunità ebraica locale, nonostante il suo impatto non fu uguale per tutti, con variazioni significative dipendenti dallo status sociale e culturale di ciascun ebreo. Accanto ad un’élite economica dedita principalmente ad attività di commercio e già proiettata verso le culture europee, esisteva infatti una massa di ebrei dalle condizioni molto più modeste e maggiormente legati alla cultura e ai costumi locali. Dal punto di vista culturale, il sistema educativo istituito dal regime coloniale contribuì a diffondere la lingua italiana ed uno stile di vita “italiano” tra una vasta parte degli ebrei libici. Nonostante ciò, la comunità non perse la sua specificità locale, continuando a condividere con il resto della popolazione musulmana la lingua araba e le tradizioni proprie del contesto nordafricano o, più specificatamente, libico. Alla fine del periodo coloniale italiano, le comunità ebraiche di Tripoli e Bengasi, come molte altre comunità ebraiche delle grandi città del Mediterraneo, erano comunità multiculturali, in cui coesistevano elementi della cultura ebraica, arabo-nordafricana e italiana.
Artigiani, ma soprattutto commercianti fin dall’epoca ottomana, gli ebrei libici giocavano un ruolo estremamente importante nell’economia libica, riconsciuto loro anche dalle autorità coloniali. Essi svolgevano tradizionalmente attività complementari rispetto a quelle della maggioranza musulmana, con la quale vivevano in una sorta d’interdipendenza economica.
Se il periodo coloniale italiano costituì sotto diversi punti di vista un’epoca di emancipazione sociale per gli ebrei, dal punto di vista giuridico tale emancipazione fu solo parziale. Con l’introduzione di una speciale cittadinanza coloniale per la Libia nel 1927, gli ebrei, al pari degli altri abitanti della colonia, furono posti in una posizione subalterna rispetto ai cittadini italiani metropolitani e limitati nei loro diritti. Pochi furono coloro che ottennero la naturalizzazione italiana, o che possedevano la cittadinanza di altri Stati europei come Francia e Regno Unito. Nel 1939, su un totale di circa 33.500 ebrei, 600 erano cittadini italiani, 1.600 sudditi francesi (tra cui numerosi tunisini) e 870 britannici. Il possesso di una cittadinanza straniera rifletteva non solo le storie migratorie di diverse famiglie ebraiche residenti in Libia, ma anche e soprattutto la pratica di alcune potenze europee nel tardo periodo ottomano di concedere la propria cittadinanza a sudditi ottomani (principalmente cristiani ed ebrei) per espandere la propria influenza nella regione.
Per quanto riguarda le dinamiche interne, tra gli anni Dieci e Trenta prese progressivamente piede anche in Libia l’attività sionista, con la nascita a Tripoli e Bengasi di diverse associazioni e l’istituzione dell’organizzazione sionista della Tripolitania. Va sottolineato, però, che il sionismo che si diffuse in Libia in quegli anni fu più culturale che politico. Infatti, ridotto fu il numero di persone che scelse di partire per la Palestina mandataria. Uno degli effetti principali dell’attività sionista in Libia fu invece la diffusione progressiva dell’ebraico moderno, nonché di nuove idee sociali. I circoli sionisti promossero infatti l’integrazione di ebrei della classe media nella vita politica comunitaria, arrivando spesso allo scontro con la classe dirigente tradizionale, e una maggiore participazione delle donne alla vita pubblica.
Le relazioni tra le autorità coloniali e la comunità ebraica furono ambivalenti. Sebbene tra la comunità ebraica e quella italiana si svilupparono buone relazioni che resistettero al processo di decolonizzazione e si mantennero nella Libia indipendente, vi furono al contempo anche tensioni significative. In generale, gli ebrei locali accolsero favorevolmente la dominazione italiana. Tuttavia, i governi coloniali evitarono di adottare un atteggiamento troppo favorevole verso di loro per non compromettere le relazioni, spesso fragili (almeno fino alla repressione finale della resistenza libica nel 1932), con la maggioranza musulmana. Le autorità italiane tentarono, non senza resistenze, di riorganizzare la comunità ebraica libica secondo il modello delle comunità italiane. Fu imposta la nomina di un Gran Rabbino italiano a Tripoli e si cercò di porre la comunità sotto un controllo più stretto del governo coloniale. In alcune occasioni, la situazione degenerò in scontro diretto, come quando all’inizio degli anni Trenta le autorità obbligarono gli ebrei a frequentare la scuola e ad aprire i negozi di sabato, nel tentativo di imporre la cultura italiana nella colonia.
Sebbene durante la maggior parte del periodo coloniale italiano fu sempre garantita la sicurezza degli ebrei, gli ultimi anni della dominazione italiana videro un estremo deterioramento della loro condizione. Pur con alcune differenze, le leggi razziali del 1938 furono estese anche alla Libia. Durante la Seconda guerra mondiale, inoltre, gli ebrei libici furono vittime di violenze, misure di internamento, lavoro forzato, espulsioni e deportazioni in Europa: circa 1.600 ebrei di cittadinanza franco-tunisina furono espulsi verso la Tunisia, mentre 400 ebrei con cittadinanza britannica furono internati prima in Italia e poi deportati a Bergen-Belsen.
Il secondo dopoguerra: tra indipendenza ed emigrazione
Il dopoguerra portò con sé ulteriori cambiamenti. Con il trattato di pace del 1947, l’Italia rinunciò alla Libia, occupata dalle forze alleate dal 1943, mentre nel 1949 una risoluzione ONU avviò il paese verso l’indipendenza, proclamata il 24 dicembre 1951. La crisi economica del dopoguerra, la ripresa dell’attività sionista, lo sviluppo del nazionalismo arabo libico con il ritorno di numerosi esiliati dell’epoca coloniale e la crisi del Medio Oriente accrebbero le tensioni intercomunitarie. Nel 1945 e nel 1948, le comunità ebraiche furono vittime di violenze che causarono rispettivamente la morte di 130 e 14 persone. L’insicurezza, l’incertezza sul futuro dopo l’indipendenza, il desiderio di contribuire al neonato Stato d’Israele o la semplice ricerca di migliori condizioni di vita spinsero la maggior parte degli ebrei (31.000 su 36.000) a emigrare verso Israele tra il 1949 e il 1952. La comunità rimasta in Libia uscì profondamente trasformata da questa emigrazione di massa. Con la scomparsa delle comunità minori, la quasi totalità degli ebrei era ormai concentrata nella capitale Tripoli, se escludiamo i 300 membri della comunità che erano rimasti a Bengasi. In aggiunta, con la partenza delle fasce più povere, il divario socio-economico tra i membri della comunità si era notevolmente ridotto, trasformando la comunità dal punto di vista sociale e culturale. Grazie allo sviluppo economico del Paese dopo la scoperta del petrolio alla fine degli anni ‘50, la comunità ebraica vide, inoltre, un progressivo miglioramento delle proprie condizioni.
Nella Libia indipendente, la condizione della comunità ebraica fu caratterizzata da profondi contrasti. Da un lato, le autorità locali garantirono la libertà di culto e la protezione dei beni e delle persone durante vari momenti di crisi. Dall’altro lato, però, gli ebrei non furono mai riconosciuti come cittadini libici, e la vita comunitaria fu limitata con la chiusura del centro sportivo e culturale Maccabi (1953), del tribunale rabbinico (1954) e della scuola dell’Alliance Israélite Universelle (1960) e il commissariamento della Comunità Ebraica della Tripolitania (1958). Inoltre, lo sviluppo del conflitto arabo-israeliano, l’adesione della Libia al boicottaggio contro Israele, la propaganda panaraba egiziana e le tensioni sociali, politiche ed economiche interne contribuirono al diffondersi anche in Libia di un clima di ostilità verso la comunità ebraica da parte di alcune frange della società.
L’esodo finale
La situazione esplose nel 1967, quando, in concomitanza con lo scoppio della guerra dei Sei Giorni, la comunità locale fu oggetto di nuove importanti violenze. Almeno tredici persone furono uccise e il 60% delle proprietà private e comunitarie fu distrutto. Di fronte allo stato d’insicurezza che si creò nel Paese, la quasi totalità degli ebrei si trasferì in Italia. Alcuni vi rimasero, mentre altri partirono da lì verso Israele o, in misura minore, verso altri Paesi come Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Tale esodo segnò la fine della vita comunitaria ebraica in Libia. Sebbene negli anni successivi alcuni ebrei fecero ritorno per brevi periodi, al fine di vendere o recuperare una parte dei propri beni, le violenze del 1967 avevano segnato un punto di non ritorno. Con l’ascesa al potere di Gheddafi nel 1969, ogni prospettiva di ricucitura dei rapporti tra la Libia e gli ebrei di Libia venne meno. Nel 1970, con dei decreti che colpirono contemporaneamente la comunità italiana e quella ebraica, fu ordinata la confisca dei loro beni e la loro definitiva espulsione dal Paese. Da allora, la quasi totalità degli ebrei di Libia vive tra Israele e l’Italia.
Bibliografia
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