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Ebrei d’Egitto

Gli ebrei nella storia dell’Egitto

L’Egitto è probabilmente uno dei luoghi che, aldilà della biblica Terra d’Israele, ha avuto la più lunga interazione con il popolo ebraico. Secondo il giornalista e storico Maurice Fargeon, che visse al Cairo agli inizi del XX secolo e pubblicò nel 1938 uno dei primi libri di storia sugli ebrei dell’Egitto moderno, Les Juifs en Egypte, “ogni volta che erano oppressi […], gli ebrei cercarono rifugio in Egitto, dove erano certi di trovare un’accoglienza cordiale e fraterna”. Certamente il rapporto tra il popolo ebraico e l’Egitto ebbe inizio in epoca antica e si estese lungo tutto il Medioevo: si pensi a grandi personalità come il rabbino e filosofo Maimonide, che nacque a Cordoba nel 1138 e morì a Fustat (Il Cairo) nel 1204. Tuttavia, durante il periodo ottomano e fino alla metà del XIX secolo gli ebrei egiziani erano una comunità piuttosto piccola – c. 5000 persone nel 1840 – e relativamente poco importante. All’epoca, la maggior parte degli ebrei viveva nello harat al-yahud (“quartiere ebraico”) del Cairo o in centri urbani più piccoli nel delta del Nilo, come Tantah. Dalla tarda antichità, il Cairo ospitava anche una comunità caraita, che contava 5000 persone nel 1948 e rimase sempre una delle componenti più arabizzate dell’ebraismo egiziano.

La nascita dell’ebraismo egiziano dell’età contemporanea

Fu solo dopo l’apertura del Canale di Suez (1869) e l’espansione economica vissuta dall’Egitto sotto il dominio coloniale britannico (1882-1922), che migliaia di ebrei provenienti da tutto l’Impero Ottomano, dal Mediterraneo orientale, meridionale e, in misura minore, dall’Europa orientale emigrò al Cairo e ad Alessandria, così come a Suez, Port Said e Isma’iliyah. Pertanto, la popolazione ebraica dell’Egitto aumentò – sulla base dei dati disponibili – a più di 25000 persone nel 1897 e ad almeno più di 60000 nel 1937. In pochi decenni molti di questi migranti ​​migliorarono il loro status, dando vita a una comunità abbastanza fiorente, che divenne parte integrante dell’Egitto coloniale e monarchico fino agli anni Cinquanta, quando contava circa 80000 persone. Da un punto di vista socio-economico, nella prima metà del XX secolo, la maggioranza – circa il 65 percento – degli ebrei che vivevano in Egitto apparteneva alla classe media e medio-bassa, il 10 percento alla classe alta e il 20-25 percento alla classe medio-bassa o erano poveri. Nacquero importanti dinastie di banchieri e imprenditori: i de Menasce a Alessandria, i Cattaoui e i Cicurel – proprietari di uno dei più famosi grandi magazzini egiziani – al Cairo. Altri possedevano piccole imprese o lavoravano come professionisti e facevano parte di quella classe media istruita, in gran parte urbana, che si sviluppò durante il periodo coloniale e dove si potevano trovare anche musulmani, copti, armeni, siro-libanesi, greci e italiani.

Ritratto delle sorelle Grety, Olga e Alice Sussman con amici al mare ad Alessandria d'Egitto, ca. 1920. Archivio Fondazione CDEC
Marcelle Chamma con gruppo di giovani su una spiaggia in Egitto, 1934. Archivio Fondazione CDEC.
Ritratto dei fratelli Isaiah ed Elia Busnach con il cugino Abramo Roditi e un altro uomo davanti al loro negozio di strumenti musicali al Cairo, 1945-1947. Archivio Fondazione CDEC
Edmond Chamma con un gruppo di uomini alla Borsa, Il Cairo, 1949. Archivio Fondazione CDEC
Veduta interna del Tempio di Alessandria d'Egitto durante la celebrazione del matrimonio di Soly Abecassis e Ginette de Picciotto, 1951. Archivio Fondazione CDEC
Edmond Chamma al centro tra altri due uomini in Egitto, ca- 1950. Archivio Fondazione CDEC
Veduta esterna della facciata del Tempio Eliyahu Hanavi, Alessandria d'Egitto, 1980-1990. Archivio Fondazione CDEC

Nazionalità e politica

Riguardo alla nazionalità, nel 1927 – cinque anni dopo la fine del dominio britannico e l’instaurazione della monarchia costituzionale di re Fu’ad (1869-1936) – il 33 percento degli ebrei erano cittadini egiziani, il 22 percento di altre nazionalità (principalmente europee) e il 45 per cento erano conteggiati come altri, vale a dire probabilmente che erano apolidi. Avere una nazionalità straniera non significa che fossero (tutti) estranei alla regione: dipendeva principalmente dal Sistema delle Capitolazioni, che fin dall’età moderna aveva concesso privilegi giuridici e fiscali agli europei residenti nell’Impero Ottomano, compresi i soggetti locali – in particolare ebrei e cristiani – che, grazie a legami commerciali e professionali, erano riusciti a ottenere una nazionalità straniera. Neppure il fatto che così tanti fossero apolidi deve essere visto come eccezionale in un contesto quale l’Egitto, dove la categoria giuridica di nazionalità venne sistematizzata solo nel 1929, con una legge che rese piuttosto difficile ai non musulmani diventare egiziani, e le Capitolazioni abolite nel 1937. Per quanto riguarda l’Italia, nel 1917 l’Egitto ospitava 40198 cittadini italiani, di cui 6629 ebrei. Alcuni di questi vi si erano trasferiti dalla penisola italiana, mentre altri erano di nazionalità italiana grazie alle Capitolazioni e spesso rivendicando ascendenze livornesi. Il numero degli italiani – e, in misura più limitata, di ebrei italiani – crebbe negli anni successivi, raggiungendo un picco di c. 55000 persone, prima di diminuire rapidamente dopo la Seconda Guerra Mondiale e la Rivoluzione degli Ufficiali Liberi (1952) guidata da Gamal ‘Abd-al-Nasser (1918-1970).

Cultura, religione e società

Il mondo culturale e sociale degli ebrei d’Egitto era molto diversificato. Molte scuole ebraiche, fondate da filantropi locali, dalle istituzioni comunitarie ebraiche o dall’Alliance Israélite Universelle, erano attive al Cairo e ad Alessandria. Tuttavia, un numero significativo di ragazzi e ragazze frequentavano anche scuole francesi, britanniche, italiane e missionarie. Furono fondati ospedali ebraici sia ad Alessandria (1890) che al Cairo (1925), così come una miriade di associazioni culturali e di società di beneficenza come la più moderna Goutte de Lait o la tradizionale Mohar Ha-betulot, che provvedeva ai bisogni di ragazze indigenti. La vita religiosa era altrettanto sviluppata, grazie a figure importanti come il rabbino capo del Cairo e dell’Egitto Haim Nahum Effendi (1872-1960) – che, tra il 1909 e il 1923, ricoprì l’incarico di ultimo rabbino capo dell’Impero Ottomano – o i due rabbini italiani che guidarono la comunità ebraica di Alessandria: Raffaello Della Pergola (1877-1923) tra il 1919 e il 1922, e David Prato (1882-1951) tra il 1927 e il 1936, quando lasciò l’Egitto per diventare rabbino capo di Roma. Gli ebrei egiziani erano parte integrante della società egiziana ma, per certi versi, erano altro rispetto alla maggioranza musulmana. Grazie alle loro origini diverse, molti potevano conversare in francese, italiano, giudeo-spagnolo e arabo – lingua che solo alcuni parlavano quotidianamente e in famiglia. Se sentimenti di appartenenza ebraica erano importanti, la maggioranza non era strettamente osservante e seguiva un approccio relativamente aperto all’ebraismo e alla halakhah (“legge ebraica”). Le conversioni all’islam o al cristianesimo erano rare, e il matrimonio e la vita famigliare riflettevano norme di rispettabilità borghese e una divisione di genere piuttosto tradizionale. A parte alcune componenti dei ceti meno abbienti, la maggior parte degli ebrei egiziani risiedeva nei quartieri più moderni del Cairo e di Alessandria: ‘Abbasiyah, Zamalek, Garden City o Ramleh. I rapporti con gli egiziani non ebrei erano frequenti e avvenivano a scuola, così come al lavoro, nei luoghi di aggregazione sociale – come i circoli o i caffè, ad esempio Groppi al Cairo e il Pastroudis a Alessandria – o a casa per i molti che avevano vicini di casa musulmani o impiegavano personale domestico. Episodi di violenza antiebraica – spesso spinti da rivalità economiche, come la famosa accusa di omicidio rituale a Alessandria noto come affaire Fornaraki (1881) – si verificarono già nel periodo coloniale, ma nel complesso i rapporti tra gruppi etno-religiosi furono buoni. Sentimenti antiebraici più rilevanti emersero solo a metà degli anni Trenta – durante il regno di re Faruq (1920-1965), con il consolidamento di movimenti politici come Giovane Egitto e i Fratelli Musulmani – e dopo la Guerra del 1948.
Adelina Pinto Della Pergola (a sinistra) nei giardini Noubar Pacha, Alessandria d’Egitto, 1938. Archivio Fondazione CDEC
Arlette Fishman nel deserto in Egitto con le compagne del gruppo Maccabi, 1940 ca. Archivio Fondazione CDEC
Isaia e Arlette Busnach sulla strada verso il canale di Suez, 1950. Archivio Fondazione CDEC.
Ritratto di Ghil Busnach (a sinistra) davanti alla piramide di Cheope a Giza, 1954. Archivio Fondazione CDEC
Adelina Pinto Della Pergola (a sinistra) a Stanley Bay, Egitto, 1937. Archivio Fondazione CDEC

Le migrazioni e il declino dell’ebraismo egiziano

A causa della loro recente migrazione e del fatto che molti non erano cittadini egiziani, solo alcuni ebrei erano coinvolti nella politica interna. Si pensi all’autore satirico e giornalista Ya’qub Sannu’ (1839-1912), in parte di origine livornese; al presidente della comunità ebraica del Cairo Joseph Cattaoui (1861-1942), che fu ministro delle finanze e delle comunicazioni tra il 1924 e il 1925, e l’avvocato Léon Castro (1884-1954) – amico del leader del partito Wafd Sa’ad Zaghlul (1858-1927). Anche se già dalla fine del XIX secolo esistevano gruppi sionisti, il sionismo attirò solo una minoranza e divenne più rilevante non prima della fine degli anni Trenta e negli anni Quaranta. Tra i più importanti giornali pro-sionisti vi erano Israël e La Tribune Juive. Intorno agli anni Quaranta, idee comuniste e socialiste iniziarono ad attrarre le generazioni più giovani e – come altrove in Medio Oriente e Nord Africa – alcuni ebrei, ad esempio Henri Curiel, divennero importanti membri del comunismo egiziano.

Con la Guerra del 1948, la Rivoluzione degli Ufficiali Liberi, la fine della monarchia, l’emergere del panarabismo e la decolonizzazione regionale, iniziarono anche le migrazioni. In alcuni casi, gli ebrei – così come i cittadini europei – furono espulsi e accusati di attività anti-egiziane, spesso dopo essere stati internati in campi come quello di Huckstep, vicino al Cairo. Altri ebrei se ne andarono dopo il cosiddetto affare Lavon – un atto di spionaggio da parte di Israele avvenuto nel 1954 – e al tempo della guerra di Suez del 1956. All’inizio degli anni Sessanta in Egitto erano rimasti solo circa 2500 ebrei e il numero sarebbe ancora diminuito negli anni successivi. Quasi tutti migrarono verso Israele, l’Europa – Francia ma anche Regno Unito e Italia – Stati Uniti, Brasile e Australia. Più precisamente, la maggioranza relativa degli ebrei egiziani fece ‘aliyah: c. 14000 tra il 1948 e il 1955, altri 16500 tra il 1956 e il 1966 – il che significa che alla fine circa il quaranta per cento si stabilì in Israele. Con riferimento all’Italia, è difficile dare numeri precisi, anche perché vi arrivarono alcune centinaia di ebrei di nazionalità italiana – stabilendosi soprattutto a Milano – e molti altri che avevano un lasciapassare italiano, ma nella maggior parte dei casi non rimasero in questo paese.

Oggi al Cairo restano una dozzina di ebrei perlopiù anziani. Per quelli nati in Egitto e che oggi risiedono in quasi tutto il mondo e per i loro discendenti, l’Egitto resta una patria perduta da ricordare con tristezza, nostalgia o rabbia. Associazioni ebraiche egiziane a Parigi e Tel Aviv, sinagoghe in Israele e negli Stati Uniti, decine di libri – alcuni in italiano, come Il chilometro d’oro (2006) di Daniel Fishman e La casa sul Nilo (2022) di Denise Pardo – e alcuni documentari tramandano quello che viene ricordato come il mondo perduto degli ebrei d’Egitto.

Bibliografia

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